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Gianni Rocca, Fucilate gli ammiragli, Oscar Mondadori

«Siamo i più deboli»

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Supermarina, per non restare comunque del tutto inattiva, e venire incontro alle impazienze del duce, progettò l'invio di due incrociatori leggeri, Bande Nere e Colleoni, alla base di Lero, per intralciare l'intenso traffico mercantile inglese nell'Egeo. I due incrociatori, dislocati a Tripoli, formavano la II Divisione agli ordini dell'ammiraglio Ferdinando Casardi, imbarcato sul Bande Nere.

Il 17 luglio Supermarina invia il cifrato convenuto per l'operazione: «diciassette trasmissioni errate». La sera, alle 21, le due navi lasciano Tripoli. Egeomil, il comando militare dell'Egeo nelle mani del quadrumviro della marcia su Roma, De Vecchi di Val Cismon, riceve dallo stato maggiore generale (Stamage) l'ordine di far perlustrare dagli aerei, all'alba del 19 luglio, lo specchio di mare fra Cerigotto e l'isola di Creta, punto in cui sarebbero transitate le navi nella loro rotta per Lero. (Ecco un altro esempio di macchinosità del nostro apparato militare. Per puri motivi d'orgoglio, difatti, De Vecchi accettava ordini solo da Stamage e da nessun altro, sicché Supermarina, per far valere le proprie esigenze operative, doveva affidarsi a canali che non poteva nemmeno controllare.)

La missione presentava, peraltro, caratteristiche avventurose. Supermarina, nel suo ordine d'operazione, non prevedeva alcuna misura con cui contrastare contemporanee mosse inglesi nelle ampie distese del Mediterraneo orientale, tanto più concepibili in quanto si inviavano proprio i due incrociatori per disturbarle.

Il 18 luglio la navigazione delle due unità procede senza inciampi. Ma quello stesso giorno, a nostra completa insaputa, uscivano da Alessandria 4 Ct inglesi (Hyperion, llex, Hero e Hasty), agli ordini del capitano di fregata Nicolson, e l'incrociatore leggero Sidney, scortato dal Ct Havock, comandati dal capitano di vascello Collins, con il compito, i primi, di rastrellare le acque tra Caso e Creta, e i secondi di completare la perlustrazione nel golfo di Atene.

L'alba del 19 coglie le nostre due unità a una dozzina. di miglia dal canale tra Cerigotto e Creta. Casardi è tranquillo. La ricognizione nel pomeriggio precedente non gli aveva segnalato novità: per quanto riguardava la mattinata che stava nascendo, era prevista la perlustrazione aerea dalla base di Lero. Con questa certezza Casardi non lancia, come misura precauzionale, i suoi due aerei catapultabili, dotati di osservatori particolarmente versati per ricognizioni in mare. Così decide, anche perché un forte vento di maestrale lo avrebbe costretto a invertire la rotta (per il lancio era necessario mettere la prua al vento), perdendo tempo in una zona adatta ad agguati sottomarini.

Un errore clamoroso quello di Casardi, perché dei tre Cant Z.50l, destinati a partire da Lero per le ricognizioni, non uno si alzerà in volo, a causa di avarie tecniche. Ma di ciò l'ammiraglio italiano non sarà minimamente informato.

Alle 6,17, un'ora prima del sorgere del sole, le vedette del Bande Nere (al comando del cap. di vascello Franco Maugeri) e del Colleoni (cap. di vascello Umberto Novaro) che navigano zigzagando, velocità 25 nodi, scorgono di prora i profili di quattro unità. Vengono subito identificati per quattro Ct nemici, provenienti da levante,. con rotta sud-ovest. Erano le navi di Nicolson che stavano rastrellando il tratto di mare loro assegnato. La sorpresa è notevole anche per il comandante inglese, che però agisce con lucidità. Via radio segnala immediatamente la scoperta al Sidney e all'Havock che completano il «rastrello» 60 miglia a nord nord-est. Contemporaneamente fa invertire la rotta alle sue unità puntando proprio in direzione delle navi amiche. Le quali, intercettato il messaggio, si dirigono, alla massima velocità, verso il punto occupato dai due incrociatori italiani, ancora prima che da Alessandria giunga ordine in questo senso.

Accadono a questo punto alcune anomalie. Casardi, che aveva l'obbligo del silenzio radio, continua a non infrangerlo; eppure dopo la sua scoperta fatta dagli inglesi non era più necessario. I comandi dell'Egeo, non avvertiti, nulla possono fare per prestargli aiuto. L'ammiraglio Cunningham, che è ad Alessandria, segue invece con molta attenzione la missione delle sue navi e ne cura il coordinamento. Supermarina, dopo l'ordine d'operazione, si è completamente disinteressata delle sorti dei suoi due incrociatori. O eccessiva presenza o assenza totale: un comportamento davvero singolare...

Casardi conosce i mezzi che comanda: sa che la caratteristica principale dei suoi due incrociatori da 5000 tonnellate è la velocità. Perciò la fa salire a trenta nodi, per serrare le distanze e avvalersi dei 16 cannoni da 152 di cui dispone.

Alle 6,27, quando è a 17500 metri, ordina l'apertura del fuoco. Il tiro italiano - sembra impossibile - non coglie bersagli. Le unità nemiche evoluiscono ed eseguono pure un lancio di siluri. Poi si coprono con cortine fumogene riportandosi a 24000 metri di distanza. Casardi continua l'inseguimento e por elevando la velocità a 32 nodi non riesce a piazzare un solo colpo, ostacolato dalla nebbia artificiale. È uno sparacchiare senza costrutto. Tra l'altro la rotta d'allontanamento del nemico non lo induce ad insospettirsi: e se lo trascinassero verso un tranello? Il suo compito non era quello, in primo luogo, di giungere a Lero, per le successive missioni?

Ma Casardi non molla la presa. Solo alle 7,21, quasi un'ora dopo l'inizio del combattimento, si decide ad. allertare Egeomil, dandogli notizia di essere in contatto balistico con quattro Ct inglesi e chiedendo finalmente l'intervento aereo. Troppo tardi! Improvvisamente, da nord, arrivano salve nemiche sul Bande Nere e sul Colleoni. Sono le 7,30. È il Sidney che, a tutta velocità, sta giungendo sul luogo dello scontro e ha già aperto il fuoco da 18000 metri. Gli inglesi ci vedono e noi no. «Si scorgevano soltanto le vampe degli spari - ricorda Casardi - ma non si distinguevano le sagome delle navi né il numero di queste.»

Il combattimento è subito aspro. Benché in inferiorità numerica il Sidney è deciso: i suoi colpi sono precisi. Un proietto perfora il ponte del Bande Nere e scoppia nella sottostante aviorimessa, uccidendo 4 marinai e ferendone altri 4. La nostra nave è sfortunata: un suo colpo trapassa il fumaiolo di prora del Sidney ma senza conseguenze, tranne la morte di un uomo. Per sottrarsi alle precise salve nemiche, Casardi ordina l'emissione di nebbia. Alle 7,46, dopo un'accostata, riesce finalmente a scorgere nella foschia le due unità nemiche che più lo impegnano: sono ovviamente Sidney e Havock, ma quest'ultimo viene scambiato per un incrociatore del tipo Gloucester; errore vistoso, perché sia per dimensione che per profilo l'unità inglese non ne aveva alcuna caratteristica.

Sono ormai le 8 e il combattimento continua: Casardi manovra per avere più spazio a disposizione, lo spirito aggressivo gli fa dimenticare che sottrarsi al nemico sarebbe - a quel punto - estremamente conveniente. Il vento di maestrale soffia impetuoso, il rollio rende incerta, almeno per. gli italiani, la punteria. L'inevitabile si produce alle 8,24. Un proiettile inglese colpisce il Colleoni nell'apparato motore. Quasi istantaneamente la nave si ferma: tutte le unità nemiche rapidamente concentrano il tiro contro il facile bersaglio, che ribatte ancora al fuoco, pur avendo la prua già immersa. Un'esplosione ne dilania il settore prodiero.

Alle 8,29 una salva di siluri lanciati dall'Havock e dall'llex dà il colpo di grazia. Casardi da bordo del Bande Nere, che a tutta velocità tenta di sottrarsi ad analogo destino, così vede la fine della nave: «Una grande nuvola di fumo nero-biancastro, e la gloriosa unità immersa sin quasi all'altezza della coperta, sbandandosi sul lato sinistro, scompare...».

Gli inglesi continuano a inseguire il Bande Nere: allei 8,50 un altro colpo arriva a bordo, con l'uccisione di 4 marinai e il ferimento di 12. Una caldaia si spegne e la velocità si riduce a 29 nodi.

Quando sono le 8,52 Casardi si ricorda di Supermarina: invia un messaggio di aiuto, con la richiesta di bombardieri. Alle 9,30 da bordo del Bande Nere si tira un sospiro di sollievo; il Sidney scade, poi si allontana. Aveva quasi esaurito il suo munizionamento nel lunghissimo scontro. Casardi e Maugeri, per evitare altre imboscate, decidono rotta su Bengasi, dove arriveranno la sera del 20 luglio.

Finalmente, nel cielo dello scontro si presentano due ricognitori italiani: sono in ritardo di circa tre ore sul previsto. Il Colleoni è già affondato. Segnalano la presenza di navi nemiche che saranno attaccate alle 11,30 da bombardieri S 79 proprio mentre stanno procedendo al recupero dei 525 naufraghi del Colleoni, tra cui il comandante Umberto Novaro, gravemente ferito e strappato a forza dalla plancia su cui voleva essere lasciato. Morirà il 23 luglio ad Alessandria e gli inglesi lo seppelliranno con solenni onoranze funebri.

Alle 10 Cunningham, che aveva seguito via radio le fasi del combattimento, lascia Alessandria sul Warspite, con un buon nucleo della sua flotta, compresa la portaerei Eagle. VuoI tagliare la strada al Bande Nere, ritenendo che punti su Tobruk. Ma la sua uscita andrà a vuoto. Per rifarsi, all'alba del 20 luglio lancerà gli aerei della Eagle contro il porto di Tobruk, facendovi strage. Risulteranno affondati al termine dell'attacco i Ct Nembo e Ostro e un piroscafo.

Torniamo un attimo indietro: nel pomeriggio del 19, De Vecchi di Val Cismon comincerà con prolissi radiotelegrammi a inondare l'etere, per comunicare a Roma fantasiosi successi degli aerei dell'Egeo: tre incrociatori colpiti, poi due Ct, infine una nave in fiamme, poi affondata. Tutte fandonie: un solo colpo aveva raggiunto l'Havock, il che non gli aveva impedito di giungere con i propri mezzi ad Alessandria.

Badoglio e Supermarina monteranno su tutte le furie per gli sproloqui di De Vecchi rimproverandogli. di aver intasato inutilmente gli spazi radio. Tanto da costringerlo a scusarsi col duce: «... apprendo dal maresciallo Badoglio a Tuo nome che sarei diventato verboso alt Ti assicuro formalmente di no alt». Non valse certo a modificare il giudizio di Mussolini, che lo riteneva un «intrepido buffone», pur affidandogli sempre nuovi incarichi di rilievo.

La fine del Colleoni fu un'altra dura mazzata per il prestigio di Supermarina, già scosso dal non brillante esito di Punta Stilo (per non parlare dell'abbattimento dell’aereo di Italo Balbo da parte dell'incrociatore San Giorgio, ancorato stabilmente nel porto di Tobruk. Eppure quell'aereo volava ad appena trecento metri di quota ed erariconoscibilissimo...).

Negli ambienti della Marina non ci si rendeva, conto di come due incrociatori avessero potuto sparare per oltre un'ora contro quattro cacciatorpediniere senza colpirli. E come mai, pur dotati di 37 nodi di velocità, non fossero riusciti a stringere le distanze. La realtà era amara da riconoscere: l'addestramento al tiro dei nostri artiglieri era scarso, il munizionamento difettoso, gli impianti telemetrici antiquati, l'alta velocità era quella che si registrava durante le prove a scafo incompleto. E per di più gli incrociatori della classe Condottieri avevano sacrificato a quella presunta velocità la necessaria corazzatura.

Ciano trova Mussolini depresso, il 22 luglio, per la perdita del Colleoni, «non tanto per l'affondamento in se stesso quanto perché giudica il combattimento condotto in modo poco brillante». Ci si limitava agli scarti d'umore anziché indagare a fondo, con una severa inchiesta. Che pure avrebbe potuto accertare precise responsabilità di Supermarina, di Egeomil e dello stesso Casardi.

Il dramma di Matapan

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La I Divisione, lasciata alle 21,06 del 28 marzo la formazione di Iachino, sta dirigendo alla volta del Pola. La comanda - come si sa - l'ammiraglio Cattaneo che sullo Zara si mette in testa al gruppo. Di poppa ha l'altro incrociatore, il Fiume, e, in linea di fila, a chiudere lo schieramento, i quattro Ct Alfieri, Gioberti, Carducci e Oriani. Ordina a tutti velocità 16 nodi. Gli equipaggi, provati dalla intensa e drammatica giornata, cominciano a fruire dei turni di riposo. Tre provvedimenti che lasciano sbalorditi.

Il primo - Le norme tattiche della navigazione notturna, in uso nella nostra Marina, prevedevano tassativamente che i Ct, disposti a rastrello, dovessero navigare in testa alla formazione, seguiti a distanza dalle unità più pesanti. Lo scopo di simile disposizione era chiaro: assegnare ai Ct le funzioni di avanguardia veloce, pronta a segnalare in anticipo la presenza di eventuali unità nemiche. Cattaneo, come si è visto, viola clamorosamente le norme e dispone le sue navi alla rovescia. Perché? Quali valutazioni gliel'avevano suggerito?

Il secondo - La missione di soccorso, cui era stato comandato, suggeriva, senza bisogno di particolari ordini, un'azione rapida, la più rapida possibile. Perché Cattaneo decide di navigare a bassa velocità, quando le sue navi gli avrebbero consentito di spingersi financo a 30 nodi? Per risparmiare nafta? Per evitare che l'eccessiva velocità producesse gli ampi baffi di prora, particolarmente visibili di notte?

Il terzo - Perché non aveva tenuto al posto di combattimento i suoi uomini? Perché di notte non eravamo abituati a combattere? I grossi calibri dello Zara e del Fiume, secondo le antiquate norme tattiche della Marina italiana e privi com'erano di cariche non illuminanti, stavano difatti disposti per chiglia, per adoperare parole gergali. Erano cioè paralleli all'asse della nave. Insomma non brandeggiabili in caso di necessità.

Cattaneo - al di fuori del secco ordine operativo di Iachino - non aveva ricevuto alcun suggerimento o allarme particolare, se si eccettuano i due radiogrammi che segnalavano, senza alcuna interpretazione, la presenza di navi nemiche a qualche distanza dalle nostre. Lo schieramento adottato da Cattaneo lascerebbe presumere che anche lui - come Iachino - fosse scettico al riguardo. Del resto non poteva pensare che il Comando supremo in mare lo mandasse in bocca al nemico senza un minimo segnale di pericolo. È vero che Iachino lo aveva autorizzato ad abbandonare il Pola se si fosse trovato di fronte «forze superiori». Ma quell'ordine era troppo generico, forse si riferiva all'eventualità che al mattino successivo, con il chiarore dell'alba, le sue navi avrebbero potuto trovarsi di nuovo sotto attacchi aerei o navali.

L'essersi messo in testa alla formazione, con lo Zara poteva spiegarsi col fatto che Cattaneo volesse essere il primo ad affiancare il Pola, per rendersi subito conto delle necessità di quella nave, senza perdere altro tempo. Ma perché, allora, procedere a bassa velocità aumentando così il tempo di percorrenza? Il timore che le spume di prua rendessero visibili le sue navi non proverebbe, al contrario, che anche Cattaneo nutriva il dubbio di un possibile incontro col nemico? Ma se così era perché viaggiava in testa alla formazione senza farsi precedere, prudenzialmente, dai suoi Ct, e lasciava gli equipaggi in stato di vigilanza ridotta? Uno dei tanti rompicapo irrisolvibili nel tragico gioco degli equivoci del 28 marzo. Sta di fatto che Cattaneo alle 21,26 trasmette al Pola: «Vengo a darvi assistenza» e alle 21,57 segnala al Fiume, che lo segue, di prepararsi a un'operazione di rimorchio.

È giunto il momento - prima di proseguire il racconto - di fare uno stacco sul Pola, l'incrociatore che aveva dato il via, col suo siluramento, a quella complessa manovra. Si ricorderà che, incassato il siluro, la nave si era fermata. Ci fu subito l'impressione in tutto l'equipaggio che la botta fosse stata mortale.

Molti, convinti di un imminente naufragio, si erano gettati in acqua, tra l'altro freddissima, data la stagione. Visto che l'incrociatore continuava stabilmente a galleggiare, i marinai, spinti anche dal gelo che cominciava ad attanagliarli, tornarono sotto la nave, invocando di essere ripresi a bordo. Richiesta che il comandante De Pisa ovviamente accolse. I superstiti da quel bagno ghiacciato presentavano evidenti sintomi di assideramento. Furono loro elargite bevande alcoliche per ristorarli, qualcuno forse ne abusò. A bordo regnava un profondo senso d'angoscia. Solo chi ha provato esperienze del genere può comprendere cosa significasse essere fermi di notte, in mare aperto, con la nave al buio e gravemente ferita nelle viscere. E per di più in una notte di guerra. Occorrevano nervi saldissimi per non farsi prendere dalla paura e dallo sconforto. Quando sul Pola giunse il segnale che navi amiche stavano dirigendo al soccorso tornò la speranza. Non erano stati abbandonati.

Ma che ne era della flotta inglese? Anche qui è necessario ricorrere al flash-back. Come si ricorderà, Cunningham aveva ordinato ai quattro incrociatori di Pridham-Wippel di spingere al massimo, conscio che il siluramento del Vittorio Veneto avrebbe rallentato la velocità complessiva della flotta italiana. Per il resto si era affidato all'attacco aerosilurante del tramonto, nella speranza che sortisse altri positivi effetti. Il violento fuoco antiaereo della formazione navale italiana fu difatti notato - con i caratteristici bagliori nella notte - da Pridham-Wippel che continuava il suo tenace inseguimento. Ma né lui né Cunningham ne conobbero i risultati. Era necessario, a questo punto, apprezzare la situazione. Nella sala nautica del Warspite si tiene consiglio. I collaboratori di Cunningham suggeriscono prudenza. Stimavano rischioso proseguire nella notte un inseguimento probabilmente infruttuoso, che li avrebbe portati nel raggio d'azione degli Stukas - particolarmente temuti - non appena fosse spuntata l'alba. Cunningham ascolta con attenzione poi se ne esce con una delle sue famose battute: «Signori, è l'ora di cena. Dopo pranzo riesamineremo la questione». E il cinquantottenne ammiraglio scende nel suo alloggio di navigazione per consumare il pasto, in tutta tranquillità. Questo era il suo «stile». Lo stile di un uomo che pareva aver costruito tutta la sua vita per quei drammatici momenti.

A dieci anni rispondendo alla domanda del padre - professore di anatomia - «Ti piacerebbe essere in Marina?», aveva risposto: «Sì, mi piacerebbe essere ammiraglio». Sin dal 1903 aveva preso imbarco su unità inglesi nel Mediterraneo, nelle cui acque trascorre gran parte della prima guerra mondiale. A 49 anni, nel 1932, col grado di contrammiraglio comanda la flotta dei Ct del Mediterraneo, allenandola incessantemente: lunghe navigazioni in qualsiasi condizione di tempo, tiri d'artiglieria, lanci di siluri, cacce simulate di sommergibili. E la utilizza soprattutto nell'oscurità essendo suo questo principio: «Una flotta ben allenata e ben manovrata non ha nulla da perdere, e anzi molto da guadagnare in uno scontro notturno».

Pur alternando incarichi provvisori all'Ammiragliato di Londra, il Mediterraneo continua a essere il «suo» mare, di cui conosce ogni. piega e segreto. Fino a che, il 9 maggio 1939, a pochi mesi dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, diventa, col grado di vice ammiraglio, comandante in capo della prestigiosa Mediterranean Fleet. Intensifica da quel momento manovre ed esercitazioni. Quando Mussolini entrò in guerra aveva per le mani, ormai, uno strumento bellico portato al massimo della preparazione.

Orgoglioso di essere inglese, e soprattutto marinaio inglese, non nutriva alcun complesso di inferiorità. Anzi. Ma ciò non lo induceva a essere avventato. Sugli italiani, e sulle loro potenzialità belliche, ebbe subito illuminanti intuizioni. Nel settembre del 1940 scrivendo a una zia in Gran Bretagna vaticinava: «È mia opinione che la guerra si concluderà qui. Forse col collasso degli italiani».

Ecco chi era l'uomo che stava comodamente consumando il suo pasto serale, alla caccia delle navi di Iachino. Terminato di mangiare, Cunningham torna in sala nautica. Come confesserà in seguito si sentiva «euforico». Respinge tutti gli inviti alla prudenza e anzi ordina a otto dei suoi Ct, al comando del capitano di vascello Philip Mack, di mettersi anche loro a tutta velocità all'inseguimento di Iachino. Lo avrebbero dovuto attaccare nella notte con un nutrito lancio di siluri. Era la tecnica del lupo. Portare il massimo scompiglio nel gregge, prima di azzannare. I quattro incrociatori di Pridham-Wippel continuano intanto, per conto loro, l'inseguimento. Il comandante è imbarcato sull'Orion; anche lui aveva trascorso una dura giornata. Al mattino se l'era vista brutta, prima contro gli .incrociatori di Sansonetti, poi coi grossi calibri del Vittorio Veneto. La missione sembrava non dover finire mai. Ma sulla sua unità c'era uno strumento che garantiva un instancabile controllo, anche di notte, il radar. Ed è proprio il radar dell'Orion che, alle 20,37, proietta sullo schermo il riflesso di una nave ferma a sei miglia di prora. (È il Pola, ma nessun inglese sapeva ancora che fosse stato colpito e in pieno calvario.) Pridham-Wippel si comporta in modo curioso: temendo che il fermarsi, per accertare di che si trattava, gli facesse perdere tempo, si limita a comunicare la «strana» novità a Cunningham e prosegue. Sapeva, peraltro, che di lì a poco sarebbero sopraggiunti i Ct di Mack, molto più veloci e agili dei suoi incrociatori.

Ben diversa è la valutazione che Cunningham dà della scoperta. Ritiene si possa trattare del Vittorio Veneto in difficoltà dopo il siluramento. Ordina pertanto il posto di combattimento e fa rotta verso il punto di scoperta con questa formazione: quattro Ct di prua a rastrello, poi, in linea, di fila, Warspite, Valiant, Formidable e Barham.

Alle 21,55 il radar di Pridham-Wippel registra «tre navi non identificate». Ma sia lui che Mack ritengono che quei segnali si riferiscano alle loro navi che, su rotte diverse, stanno procedendo nella notte all'inseguimento del nemico. Così pensando non segnalano alcunché a Cunningham. (In realtà le «navi non identificate» erano quelle dell'ammiraglio Cattaneo in rottà verso il Pola.) Alle 22,03, il radar del Valiant, una delle tre corazzate di Cunningham, finalmente «vede» anche lui la nave ferma. (È sempre il Pola.) Alle 22,20 la distanza si è ridotta a 4 miglia. Il bersaglio, immobile, sta di prua a sinistra dell'accorrente formazione inglese. I grossi calibri delle corazzate inglesi vengono brandeggiati in quella direzione, le centrali di tiro sono pronte a dare il via al fuoco. Ma alle 22,23 il Ct Stuart, che sta di prua, segnala la presenza di navi oscurate, a 4 miglia, sull'altro lato della formazione di Cunningham. Sulla plancia del Warspite, il commodoro Edelsten, già ufficiale sommergibilista, riconosce in quelle sagome tre incrociatori italiani del tipo Zara. Aveva ragione, anche se sbagliava nel numero. Erano le ignare unità di Cattaneo che stavano arrivando al soccorso del Pola.

Cunningham, dopo un controllo col binocolo, agisce rapidamente: ordina l'accostata delle sue corazzate sul nuovo obiettivo, facendo uscire dalla linea di fila la portaerei Formidable, a quel punto solo d'impaccio. La manovra si svolge in tempi rapidissimi. I 24 cannoni da «381» delle tre corazzate sono già puntati sul nuovo bersaglio. Alle 22,30 le navi inglesi accendono d'improvviso i loro riflettori: ad appena 3500 metri di distanza ecco apparire, quasi irreali, gli scafi delle nostre unità investiti da quel ciclone di luce. Pochi secondi ancora e dal Warspite parte la prima salva dei massimi calibri. «Vidi i nostri. sei grandi proiettili che volavano per l'aria. Cinque su sei colpirono...» ricorda Cunningham. Era l'inizio dell'impietoso massacro.

Il comandante dello Zara, capitano di vascello Luigi Corsi, colto totalmente di sorpresa, come tutti, cercò l'accostata in fuori ordinando macchine a tutta forza. Ma la nave ripetutamente centrata da proietti di mille chili l'uno, con la coperta cosparsa di morti e feriti, divenne presto un relitto in preda alle fiamme, priva di elettricità.

Sul Fiume, al comando del capitano di vascello Giorgio De Giorgis, analoghe scene apocalittiche. Le macchine continuarono a funzionare per qualche minuto, poi la nave cominciò a sbandare sulla dritta.

Anche i quattro Ct, che seguivano di poppa le due unità maggiori, si trovarono d'improvviso travolti nell'inferno di luce e di fuoco. Non c’era tempo per connettere: passare in pochi secondi da una navigazione normale al combattimento fu uno choc traumatico. Eppure il capitano di vascello Salvatore Toscano, che comandava il Ct Aljìeri, riuscì in quel turbinio di colpi a far lanciare due siluri e sparare quattro salve dai cannoni, prima che la sua unità in fiamme si immobilizzasse definitivamente. Anche il Carducci, al comando del capitano di fregata Alberto Ginocchio, emise con prontezza cortine di nebbia prima di essere ripetutamente centrato. La misura d'emergenza adottata dal comandante Ginocchio fu provvidenziale per gli altri due Ct: l'Oriani (cap. di fregata Vittorio Chinigò), che pur colpito riuscirà a mettersi in salvo, e il Gioberti (cap. di fregata Marco Aurelio Raggio) che uscirà addirittura indenne.

La carneficina era durata pochi minuti. Adesso cominciava l'agonia delle unità colpite. L'incrociatore Fiume fu il primo ad affondare, capovolgendosi sulla dritta. Il comandante De Giorgis fu visto in acqua, ferito al volto, aggrappato come molti altri suoi marinai a una zattera, che a un tratto si capovolse. Di De Giorgis non si ebbe più traccia.

Poi toccò ai due Ct che ancora galleggiavano: Le unità leggere di Cunningham provvidero col siluro e col cannone a dar loro il colpo di grazia. L'Alfieri scomparve con il comandante Salvatore Toscano, rimasto a bordo della nave. Il Carducci saltò in aria colpito dal Ct inglese Havock: il comandante Ginocchio era in acqua con i suoi marinai. Cominciava per lui un doloroso ed eroico calvario.

Ma seguiamo le mosse del Ct inglese Havock. Dopo aver fatto piazza pulita del Carducci, si dirige verso lo Zara, ancora in fase di galleggiamento, benché in fiamme. A bordo dell'incrociatore sia l'ammiraglio Cattaneo che il comandante Corsi avevano tentato di dirigere le operazioni di spegnimento degli incendi. Quando compresero che la nave era perduta decisero l'autoaffondamento, aprendo le apposite valvole. All'equipaggio superstite, raccolto attorno a lui, Cattaneo raccomandò calma e contegno dignitoso in prigionia. Poi vennero gettati i battellini di salvataggio in mare, ma lacerati com'erano dalle schegge dei proiettili nemici affondarono rapidamente. Nelle gelide acque la resistenza non poteva protrarsi a lungo. Anche Cattaneo e Corsi scomparvero tra i flutti, il primo portando con sé, per sempre, gli interrogativi di quella tragica notte.

Quando l’Havock giunse sul posto con l'intento di finire lo Zara, che ancora galleggiava, malgrado le misure di autoaffondamento, si avvide, grazie ad alcuni tiri illuminanti, di un'altra unità poco distante, completamente immobile nel buio della notte. Il comandante del Ct inglese di fronte all'inaspettata scoperta pensò trattarsi di una corazzata italiana, forse il Vittorio Veneto che da tempo stavano inseguendo. Non ha più siluri e teme di avventurarsi in uno scontro perdente. Segnala a Cunningham la scoperta e resta in zona. La mezzanotte è passata da 20 minuti. Siamo già al 29 marzo. Cunningham, che si era allontanato dalla caotica zona dello scontro per evitare alle sue grandi navi pericolosi equivoci, non si impressiona per il messaggio dell' Havock. Doveva essere - secondo lui - una delle unità sfuggite al massacro di cui i suoi mezzi leggeri si sbarazzeranno quanto prima.

Ma quel messaggio viene captato anche da Mack, il comandante che stava guidando il gruppo di 8 Ct alla caccia del Vittorio Veneto. Lo interpreta come la «scoperta», la tanto desiderata scoperta del Vittorio Veneto. Ordina quindi alle sue unità, di invertire la rotta e di puntare a tutta forza sul luogo indicato dall'Havock. Non si fermerà nemmeno quando riceverà, sempre dall'Havock, un'importante precisazione: che l'unità immobile non era una corazzata ma un incrociatore. Finalmente quel comandante aveva visto giusto: si trattava difatti del Pola!

A bordo di quella nave, ferma ormai da oltre quattro ore, l'equipaggio aveva assistito da breve distanza, impotente e allibito, alla strage delle navi di soccorso di Cattaneo. Per un curioso destino nessuna nave inglese, nel caos del combattimento notturno, si era accorta del Pola. Ma la partita stava per chiudersi anche per lui. Quando Mack giunse sul posto con i suoi Ct trova ancora lo Zara in fiamme e galleggiante. Evidentemente, nella fretta e nella confusione, le misure di autoaffondamento non avevano prodotto gli effetti sperati. Forse la nave era stata abbandonata troppo presto, sia pur nella comprensibile ansia di porre in salvo l'equipaggio sopravvissuto. Mack fa lanciare due siluri e finalmente lo Zara saltò in aria scomparendo dalle acque.

Poi, col suo Ct Jervis, si affianca al Pola, il cui equipaggio era ormai ai limiti umani della resistenza, dopo tutto ciò che aveva visto. E ne trasborda 248 uomini, ancora illesi, tra cui il comandante De Pisa. Poi lancia altri due siluri che mettono fine all'esistenza del Pola, causa involontaria della strage di Capo Matapan.

Che ne era di Iachino e delle sue navi che puntavano su Taranto? Lo avevamo lasciato, poco dopo le 21, quando aveva autorizzato Cattaneo a tornare indietro, verso il Pola. Alle 22,30 a bordo del Vittorio Veneto «il caposervizio di vigilanza sull'ala di plancia - è Iachino che racconta - viene di corsa ad avvertirmi che si vedono di poppa grandi bagliori e vampate di salve di grossi cannoni. Balzo dal mio seggiolino e corro anch'io a guardare verso poppa, dove trovo alcuni ufficiali che stanno immobili e silenziosi, allibiti dinanzi al terribile spettacolo che si presenta ai loro occhi. Molto distanti, di poppa a noi, si vedono grandi vampate rossastre susseguirsi rapidamente, mentre fasci vividi di proiettori sciabolano la notte in tutte le direzioni... È evidente che si tratta di un combattimento in cui si trova impegnata la nostra Prima Divisione. Non si vedono però i proiettili illuminanti delle nostre navi...». Proprio così: le nostre navi non avevano avuto nemmeno il tempo di sparare. E Iachino sapeva bene anche il perché: le nostre grandi unità, di notte, non potevano e non sapevano combattere con il cannone.

Il nostro ammiraglio - anche lui annichilito dallo spettacolo - invia d'urgenza un segnale a Cattaneo sullo Zara che ha il sapore di una inconsapevole ironia: «Dite se siete attaccato». Non riceverà naturalmente risposta.

Iachino non pensa di correre in soccorso: è troppo tardi e poi ha il Vittorio Veneto «ferito»; di incrociatori pesanti gliene sono rimasti tre (Trento, Trieste e Bolzano) dei sei che prima lo scortavano. E gli altri due, l'Abruzzi e il Garibaldi, che incautamente aveva allontanato tante ore prima, ormai erano lontanissimi. Dall'ala di plancia continua a lungo a vedere fiammate e bagliori che si protrarranno sino a mezzanotte. Comprensibile il suo stato d'angoscia e di preoccupazione. La missione nelle acque di Creta stava finendo in tragedia. E il responsabile principale del suo esito fallimentare non poteva che essere lui.

È talmente frastornato e confuso che solo alle 23,47, davvero con incredibile ritardo, avvisa Supermarina, da tre ore ormai priva di notizie sulla flotta italiana: «Prima Divisione mentre trovavasi ore 22,30 presso Pola per assistenza, est stata vista lungamente impegnata con forze nemiche. Alt. Non ho notizie perché non risponde alle chiamate rt».

Anche in questa occasione Iachino tace all'alto comando che le navi di Cattaneo, su suo ordine, erano tornate indietro. Forse Iachino già intuisce che quella decisione diventerà il fulcro delle future polemiche e se ne sbarazza - per ora - rimuovendo il fatto.

Lo stato confusionale di Iachino è confermato da un altro elemento: solo alle 1,18 del 29 marzo si ricorda dell'ammiraglio Legnani e gli ordina di tornare indietro con l'Abruzzi e il Garibaldi, sì da poterli incontrare alle 8 del mattino a 60 miglia da Capo Colonna.

La notte trascorre di nuovo insonne per tutti. Sulle plance comando, ai pezzi, nei corridoi delle navi, dove si affollano i marinai - in navigazione di guerra non si dormiva nelle apposite cuccette - nelle sale motori, aleggia un'atmosfera da incubo. Che ne era del Pola, dello Zara, del Fiume? E dei quattro Ct? Molti avevano su quelle unità amici fraterni, compagni delle ore libere nei porti. Gli occhi si interrogavano ansiosi nelle tenui luci schermate di bordo: e noi riusciremo a tornare vivi?

Fortunatamente per le navi sopravvissute di Iachino, anche Cunningham aveva commesso qualche errore, quella notte. Appena compiuto l'inaspettato massacro delle navi di Cattaneo aveva ordinato alle sue corazzate e alla portaerei una rotta per nord-est, in direzione delle coste greche. In questo modo rinunciava a inseguire il resto della flotta italiana. Era il suo solito principio: mai sfidare oltre misura la fortuna. E quella sera ne aveva avuta già tanta.

Pridham-Wippel nemmeno lui era riuscito a concretizzare il suo inseguimento, condotto con insufficiente energia e tra molte perplessità. I Ct di Mack erano addirittura tornati indietro per finire quello che ritenevano il Vittorio Veneto.

Cunningham si stava lasciando sfuggire un'occasione d'oro per distruggere praticamente l'intera flotta italiana in mare. Di notte, ormai doveva saperlo, gli italiani erano come gattini ciechi. A mezzanotte - comunque - ordina a tutte le sue unità sparpagliate di trovarsi per le 7 del mattino - 29 marzo - a 50 miglia a sud-ovest di Capo Matapan. Il suo intento era quello di tornare in condizioni di luce sul luogo dello scontro. Cosa che avviene alle 8.

Tutt'intorno il mare brulica di battellini, zattere, rottami, cui si aggrappano centinaia e centinaia di naufraghi. Uno spettacolo impressionante. Le navi leggere di Cunningham si fermano per il salvataggio. Riescono a prendere a bordo oltre mille fra marinai e ufficiali. Ma la comparsa di ricognitori tedeschi allarma l'ammiraglio inglese. Forse sono il preludio dei temuti Stukas. Ordina di cessare le operazioni di soccorso e di prendere la strada del ritorno a casa. L'ammiraglio inglese conferma, anche in questa occasione, il suo temperamento misto di audacia e di prudenza, oltreché di grande fair play, tipico della vera gente di mare. Lancia dalla sua nave un messaggio in chiaro, personalmente indirizzato a Riccardi, nel quale indica la posizione esatta dei naufraghi italiani. Riccardi gli risponde subito, anche lui in chiaro: «Vi ringrazio per vostra comunicazione. La nave ospedale Gradisca è già partita ieri sera da Taranto alle ore 17».

La nave dunque era stata fatta partire, prudenzialmente, da Supermarina, prima ancora di conoscere l'esito della missione. Ma proprio quella decisione, apparentemente corretta, fu causa di una nuova tragedia. Il Gradisca sviluppava appena, come velocità massima, 15 nodi. Giunse sul luogo del disastro solo la mattina del 31 marzo. Percorrendo avanti e indietro per sei giorni quei tratti di mare - di notte accendendo i proiettori - troverà nelle gelide acque solo 147 marinai e 13 ufficiali, tra i quali il comandante del Carducci, Ginocchio, che si era prodigato sino allo spasimo per salvare i suoi uomini, lottando contro la pazzia che stava dilagando, impedendo tuffi suicidi, recitando al calar della sera la preghiera del marinaio, imponendo di cantare durante il giorno.

Troppo lungo sarebbe raccontare le vicissitudini di quanti riuscirono a salvarsi; storie tra loro simili nell'orrore. Chi stava in acqua e scorgeva un battellino tentava disperatamente di aggrapparsi, provocandone spesso il rovesciamento. Gli esausti e i feriti che stavano sdraiati sul fondo del natante non riuscivano a disimpegnarsi e morivano annegati. Nei ribaltamenti sparivano i remi, i provvidenziali barilotti d'acqua, i viveri, i medicinali, le pistole e i razzi di segnalazione Very.

Questa fu la prima notte. Quando venne l'alba e apparve la flotta inglese in tutti i sopravvissuti rinacque la speranza. Ma fu di breve durata, a causa dell'arrivo dei velivoli tedeschi. Il sole - quel giorno già caldo - spinse molti naufraghi a spogliarsi: la seconda notte, col freddo di marzo, fu per loro fatale.

Al secondo giorno la sete divenne la principale tortura: guai a chi .beveva acqua di mare. Le menti presero a vacillare con fenomeni di allucinazione collettiva. «Terra! Terra!» cominciava a gridare qualcuno e molti si buttavano a nuoto spendendo così le ultime energie. Altri silenziosamente, d'improvviso, si tuffavano dai battellini per non riapparire più. Un gruppo di naufraghi fu concorde, dopo la salvezza, nel testimoniare che all'alba del secondo giorno trascorso in mare avevano «visto» - dalla loro zattera - riemergere l'incrociatore Fiume dalle acque e poi, lentamente riscomparire.

Nella tragedia di Matapan trovarono la morte 2303 uomini: 782 dello Zara, 813 del Fiume, 328 del Pola, 211 dell'Alfieri e 169 del Carducci.

Nelle acque rimasero a lungo rottami di ogni genere, tra cui una bottiglia, ermeticamente tappata da uno strato di cera. Fluttuerà per anni nel Mediterraneo fino a quando, un mattino dell'agosto 1952, venne rinvenuta sulla spiaggia di Villasimius, presso Cagliari. Quando una mano curiosa la osservò, scoprì al suo interno un pezzo di tela, strappato da una copertura di mitragliera, con su scritto: «R. Nave Fiume - Prego signori date mie notizie alla mia cara mamma mentre io muoio per la Patria. Marinaio Chirico Francesco da Futani, via Eremiti l, Salerno. Grazie signori - Italia!». Il messaggio fu recapitato alla madre del povero marinaio in una frazione di Futani, paese poco distante da Capo Palinuro. Il padre, che mai aveva disperato del ritorno del figlio, era già morto nel '48. Alla memoria del marò Chirico Francesco fu decretata una medaglia di bronzo: «...prima di scomparire in mare con l'unità, confermava il suo alto spirito militare ,affidando ai flutti un messaggio di fede e di amor patrio che, dopo undici anni, veniva rinvenuto in costa italiana». Mai decorazione fu più meritata.

"Enigma" e "Ultra"

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Torniamo all'offensiva inglese contro il traffico verso la Libia, che, soprattutto a settembre, aveva fatto registrare notevoli successi. Il più vistoso dei quali si ebbe all'alba del 18 settembre quando le due motonavi italiane Oceania (19.403 tonnellate) e Neptunia (19.328 tonnellate) furono colate a picco a poca distanza da Tripoli. Partite in compagnia di una terza motonave, il Vulcania, erano state scelte proprio per la loro elevata velocità, 20 nodi. Si sperava, abbreviando il tempo di percorrenza, di ridurre contemporaneamente le possibilità offensive del nemico.

Avevano lasciato Taranto il 16 settembre, poco dopo il tramonto. Le scortavano 5 Ct, tutti veterani dei viaggi verso la Libia: Da Recco, Da Noli, Usodimare, Pessagno e Gioberti, al comando del capo squadriglia Stanislao Esposito. La rotta prescelta - molto a levante di Malta - doveva evitare le offese aeree di quell'isola. Le navi, colme di soldati tedeschi e italiani, furono ugualmente individuate da un ricognitore nemico il mattino del 17; ciononostante non subirono attacchi. Ma nella notte fra il 17 e il 18 un sommergibile inglese avvista il convoglio: è troppo distante per poter lanciare siluri e si limita a inviare il messaggio di scoperta, sapendo che nelle acque di Tripoli ci sono altri sommergibili in agguato, tra i quali il terribile "Upholder" del capitano Wanklyn.

È davvero stupefacente che per un convoglio di simile importanza Supermarina non avesse provveduto a una preventiva azione contro i mezzi subacquei nemici. Così l'Upholder, in tutta tranquillità, può lanciare in semi-emersione i suoi siluri: uno centra il Neptunia, un altro l'Oceania, che viaggiava a poche centinaia di metri. Il sommergibile attaccante - sono le 4,15 - si immerge e scompare. Le navi scorta italiane si trovano di fronte a un drammatico dilemma: dar la caccia al sommergibile o por mano al salvataggio dei 5818 soldati imbarcati sui due transatlantici. Le acque subito brulicanti di naufraghi e di lance spingono i Ct a dar la precedenza al gesto umanitario. C'è un ricordo agghiacciante del comandante dell'Usodimare, Alfonso Galleani: «Teste teste teste che galleggiavano l'una accanto all'altra: un numero di teste incommensurabile e, qua e là, zattere stracariche di naufraghi... e poi ancora teste teste teste di esseri umani aggrappati ad un salvagente, ad una scheggia di legno, ad un qualsiasi frantume». Rifulge, in quell'occasione, lo spirito organizzativo dei tedeschi. I militari imbarcati avevano in capo una bustina, il cui interno era di color rosso. Era stato loro impartito l'ordine di rovesciarla in caso di naufragio. Quei punti rossi in mezzo al mare facilitarono la ricerca e il conseguente recupero. Alle 6,50 l'agonia del Neptunia cessa con l'affondamento.

L'Oceania ancora galleggiava, dopo aver sbarcato tutti gli uomini che aveva a bordo, tranne il personale addetto alla manovra e alle mitragliere antiaeree. Ma alle 8,50 l'Upholder, rimasto in zona, lancia altri due siluri che squarciano la nave: sette minuti dopo si inabissava verticalmente di poppa. Se rimarchevole fu la freddezza di Wanklyn, inspiegabile appare la mancanza di protezione attorno all'unità colpita, che forse poteva ancora essere salvata.

I Ct di scorta, nella loro infaticabile opera di soccorso, riuscirono a evitare che al disastro navale si aggiungesse la strage. Sulle ristrette tolde e negli angusti spazi sotto coperta si ammassarono i naufraghi: 2083 sul Pessagno, 1302 sul Da Recco, 682 sul Da Noli, 582 sul Gioberti e 485 sull'Usodimare. Se si pensa che tali unità imbarcavano 250 uomini di equipaggio si può comprendere quali problemi avesse creato ai comandanti quella massiccia azione di salvataggio.

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Il traffico non poteva essere interrotto. Sicché fu costretto a organizzare, in tempi brevi, un robusto convoglio - denominato «Duisburg», composto da 7 piroscafi, con un carico di oltre 34000 tonnellate, comprendente artiglieria, munizioni, automezzi, carburante e personale tedesco e italiano. Avrebbe avuto come scorta diretta una squadriglia di 6 Ct, e, come scorta a distanza, 2 incrociatori pesanti (Trieste e Trento) e altri 4 Ct. Tre sommergibili sarebbero stati posti in agguato fuori dalle acque di Malta per segnalare tempestivamente l'uscita di navi inglesi (nel piano operativo ci si dimenticò però di sottoporre l'isola a duri bombardamenti). La rotta prescelta era quella già, sperimentata altre volte: aggirare da levante Malta, per evitarne gli attacchi aerei e puntare poi, nella notte, verso sud, in direzione del porto di Bengasi. Come previsto dal piano, nelle prime ore pomeridiane dell'8 novembre il convoglio con la sua scorta si raggruppa nelle acque a est di Malta. Malgrado la robusta scorta aerea, un ricognitore inglese scopre parte delle nostre unità in navigazione e lancia l'allarme. A Malta il comandante Agnew valuta esattamente le nostre intenzioni: il convoglio italiano, pur puntando a est, nella notte avrebbe sicuramente piegato a sud, per raggiungere la Libia. Alle 17,30 la «Forza K» lascia Malta, con una rotta d'intercettazione. L'uscita non viene avvistata né dai sommergibili italiani in agguato né dalla nostra ricognizione aerea.

Sia pure tardivamente Supermarina viene a conoscenza del messaggio di scoperta lanciato dal ricognitore inglese. Il nemico dunque sapeva del nostro convoglio. Ma a quel punto l'alto comando navale non se la sente di annullare la missione. La marcia verso la Libia doveva proseguire, comunque.

Scende la notte dell'8 sul 9 novembre. L'ammiraglio Bruto Brivonesi (che comanda il gruppo Trento - Trieste), già scettico in materia, ha il consueto problema da risolvere: come proteggere al buio un convoglio di sette mercantili che viaggiano ad appena 9 nodi. Opta, non potendo le sue navi adeguarsi a questa bassa velocità, per il pendolamento sul lato del convoglio rivolto verso Malta, cioè nel punto dove poteva provenire la minaccia nemica. Alle 22 è di poppa al convoglio; dalle 22 alle 24.10 rimonta sulla dritta, mettendosi di prua; a mezzanotte inverte la rotta e gli sfila di controbordo riportandosi, alle 0,30; di nuovo a poppa.

I mercantili continuano ad avanzare su due file, circondati da 6 Ct di scorta diretta, agli ordini del caposquadriglia Ugo Bisciani, imbarcato sul Maestrale. Con quella unità sono anche Libeccio (cap. di fregata Tagliamonte), Grecale (cap. di fregata Di Gropello), Oriani (cap. di fregata Chinigò), Euro (cap. di corvetta Cigala Fulgosi) e Fulmine (cap. di corvetta Milano).

Tutto sembra procedere normalmente. Gli equipaggi dei mercantili e delle unità da guerra scrutano le acque: quelle sono le ore più pericolose. Non resta che attendere e sperare. Ma Agnew, con le. sue quattro navi, sta per arrivare all’appuntamento. Alle 0,40 il comandante inglese, grazie al radar, avvista da una distanza di 9 miglia il nostro convoglio. La notte è limpida, rischiarata dalla luna dell'ultimo quarto. Le unità inglesi, disposte in linea di fila, puntano sulla poppa del nostro convoglio, poi alle 0,50, accostano per disporsi sul suo lato destro. Mentre è in corso la manovra, Agnew si accorge che oltre alle navi già avvistate, più a nord ci sono anche quelle dell'ammiraglio Brivonesi, di cui non era a conoscenza. La sorpresa non induce Agnew a mutare il programma. Alle 0,57 apre il fuoco. Il primo a essere duramente colpito è il Ct Fulmine, il cui comandante Mario Milano resta subito ferito. Il direttore di tiro, tenente di vascello, Garan, si porta all’unico cannone utilizzabile per azionarlo personalmente. Scompariranno entrambi con la loro nave che si inabissa rapidamente.

È la volta del Grecale: anch'esso ripetutamente centrato deve lasciare il convoglio e puntare verso nord (sarà poi salvato grazie al rimorchio di un'unità amica). Tocca al terzo Ct della scorta diretta: è l'Euro. Il comandante Cigala Fulgosi, sorpreso anche lui dall'improvviso combattimento, dapprima fa emettere cortine fumogene e poi dirige la sua unità, pur colpita, verso il nemico. Ma quando si trova a tremila metri di distanza si pone un inquietante quesito: i due incrociatori su cui sta puntando sono davvero nemici? O non saranno invece quelli di Brivonesi che stanno accorrendo in soccorso? Nel dubbio desiste dall'attacco e accosta in fuori. Il lato destro del convoglio resta così del tutto scoperto. Sull'altro lato i restanti tre Ct, Maestrale, Libeccio e Oriani, dopo aver prodotto cortine fumogene, si mettono anch'essi in rotta di allontanamento. I sette mercantili sono ormai delle pecore indifese. E su di loro, senza più alcun contrasto, si avventano le quattro navi di Agnew. Uno dopo l'altro i piroscafi vengono centrati dai micidiali cannoni inglesi, azionati nella notte come in un’esercitazione. Fiamme e esplosioni li devastano. Non uno riuscirà a salvarsi in quella notte di tregenda. La strage era stata compiuta in poco più di un'ora. Alle due, difatti, le navi di Agnew riprendono tranquillamente la rotta di ritorno per Malta, senza altre molestie.

In quell'ora come si era comportato l'ammiraglio Brivonesi? Secondo il suo racconto, alle 1,01 si accorge dell'inizio del fuoco nemico contro il convoglio. Giudica che lo scontro stia avvenendo a tremila metri di distanza. Ordina a Trento e Trieste di accostare a dritta per consentire il massimo campo di tiro ai suoi cannoni. Ma l'accostata è troppo ampia e prolungata rispetto alle esigenze, sicché si allontana dalle navi nemiche. Difatti quando Trieste e Trento apriranno il fuoco, fra le 1,03 e l'l ,05, il tiro non sarà centrato. Alle 1,08, finalmente, Brivonesi, terminata l'accostata, punta dritto su Agnew. La sua velocità è però troppo bassa: 16-18 nodi contro i 20 del nemico. Quando alle 1,18 deciderà di farla salire a 24 nodi, il nemico sarà già a 17 000 metri, spesso occultato dal fumo dei mercantili in fiamme. Dei 289 colpi sparati da Trento e Trieste non uno va a segno. Brivonesi, a questo punto, tenta di tagliare la strada al nemico ma senza riuscirvi. Il combattimento è finito. Non resta che recarsi sul luogo della strage per cercare di salvare, nel buio della notte, i naufraghi delle navi affondate.

Alle 6,40 si aggiunge un altro capitolo al dramma. Il Ct Libeccio, che aveva appena ultimato l'opera di soccorso, viene silurato dal sommergibile inglese Upholder (ancora lui!), che si aggirava nella zona a caccia di altre prede. Il siluro scoppia nei locali di poppai del Libeccio, proprio dove si stavano dando i primi soccorsi ai naufraghi.

Il Ct Euro, di Giuseppe Cigala Fulgosi, gli si affianca per trasbordare quante più persone è possibile. Alle 11,15 l'agonia ha termine. Cigala Fulgosi così la ricorda: «Quando il Libeccio ha cominciato ad affondare decisamente il comandante di quell'unità, Tagliamonte, è salito verso la plancia e l'ultima visione che ho di questa unità è la sua prua dritta verso il cielo ed il suo magnifico comandante che aggrappato in alto, in tenuta di panno, con colletto duro e berretto, senza salvagente, salutava col braccio». Tagliamonte aveva deciso di morire con la sua nave. Ma risospinto alla superficie da un'ondata sarà salvato dall'istinto di sopravvivenza: si mette a nuotare riuscendo a raggiungere una zattera.

Il mattino del 10 novembre le superstiti navi di Brivonesi rientrano nei loro porti. La notizia del disastro navale si era immediatamente diffusa. Iachino è fra i primi a presentarsi a bordo, per interrogare Brivonesi e i suoi collaboratori. Non si rende conto di come sette mercantili siano stati distrutti pur usufruendo di una forte scorta. Nel suo rapporto Iachino sarà esplicito: «Gli ordini dati dopo l'incontro con il nemico, ed i movimenti eseguiti, riflettono un evidente stato d'incertezza nella mente dell'ammiraglio Brivonesi... Si deve riconoscere che ci sono stati errori di apprezzamento tattico, che hanno reso inefficace l'azione di fuoco delle sue navi, e hanno prematuramente interrotto il contatto col nemico».